Quanta vita e quante sfumature si nascondono dentro una diagnosi?

Sindrome di Down, ritardo mentale grave, tratti autistici pervasivi, non verbale, comportamenti aggressivi auto ed etero diretti.

Questa la presentazione ufficiale, buona per tutti. Per me eri una sfida in un contesto già estremo per le difficoltà concrete ed emotive del contatto con un’utenza grave. Il mio primo lavoro, tra l’impaccio della prima volta e la fatica di dover gestire fisicamente e mentalmente tanti, tanti ragazzi, ognuno con un suo modo di comunicare, fatto di sottigliezze non replicabili e di quella unicità che impone di risintonizzarsi per ciascuno su una frequenza diversa, mai scontata. Aggiungere a tutto questo la determinazione caparbia ed istintiva di trovare un modo per raggiungerti. Certo tu le cose le hai messe in chiaro fin dal principio, tradendo nell’immediato la tua egocentrica intolleranza ad essere messa al margine, che bastava parlare d’altro e non di te, guardare altro e non verso di te per sentir volare sedie o gemere malcapitati aggrediti alle caviglie dalla tua presa infernale.

Altroché se ne ho prese anche io. Porto con fierezza le cicatrici sul dorso delle mani e, da qualche parte, tra spalla e collo, devo aver ereditato il segno di un morso sferrato a tradimento, quando oramai potevamo dire di fidarci l’una dell’altra. Era chiaro ad entrambe che non ci saremmo arrese facilmente, tu a mostrarti docile, io a rinunciare all’impresa. Abbiamo lottato a lungo e senza risparmiarci per apprendere l’una dall’altra la fiducia.

In un legame non servono le parole

Ricordi i tanti corpo a corpo per calmare le tue urla o la compulsione di rompere tutto e ferire chiunque ti passasse a tiro o, ancora, te stessa? Io ricordo anche la tenerezza della tua voce che si faceva calma e, con lei, il respiro più rilassato, i muscoli meno contratti, quando potevo finalmente mollare la presa e portarci in salvo entrambe dalla violenza e dalla paura.

Certo mi hai anche insegnato cosa vuol dire sentire il dolore dell’altro, averlo nello stomaco. Ma insieme all’empatia ho appreso, con te, la separatezza perché quei giorni sapevo bene che il tuo aggredirmi era una richiesta d’aiuto, sapevo che avevi dolore ed ho fatto del mio meglio, ma non potevo capire. Invece hai capito tu, quando dopo mesi di lotte e lacrime, vittoriose passeggiate in pieno centro, dondolii sulle note della nostra canzone preferita, quel ‘piangendo gli viene da ridere, ballo anch’io se balli tu’.., dopo tutto questo era giunto per me il tempo dei saluti. Il tempo in cui ho imparato qualcosa che non ho più dimenticato.

Eravamo sole su quel viale alberato e quando hai perfettamente inteso quel che provavo a dirti, hai toccato la ruota della tua carrozzina facendomi segno di camminare, camminare e cantare mentre con la mano e il braccio facevi quel gesto a metà tra l’involontario ed il perplesso, segno della tua tristezza.

Piangevi silenziosamente ed io alle tue spalle piangevo pure perché imparavo che per tutto quello che c’è da dire in un legame non servono le parole, né una perfetta intelligenza.

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