Era estate ed ero in una località di vacanza, un villaggio turistico. Non lo sceglierei mai per le mie vacanze ma, evidentemente, è un luogo di famiglie e bambini e questo molto da vicino richiama il mio lavoro.

Mi ritrovavo a dover accogliere una bambina, piccola, figlia di una mia paziente che l’aveva smarrita. Buona parte del sogno mi vedeva impegnata nel tentativo di mettermi in contatto con lei, per riportare la figlia alla madre e viceversa. Ma sulla rubrica del mio telefono dai numeri era scomparso il nome ed io non trovavo modo di risalire al numero giusto. Giravo nel villaggio prendendomi cura della piccolina. Portandola in braccio, cercando di rassicurarla mentre in modo sempre più concitato chiedevo aiuto ai presenti per mettermi in contatto con la mia paziente.

Dopo un lungo inconcludente tentare, ecco qualcuno che mi fornisce il numero giusto. Chiamo urlando ad un capo del telefono: ‘E’ con me, è al sicuro, lo è stata tutto il tempo’.

Ecco, evidentemente quanto sta accadendo mette tutti noi in contatto con vissuti di smarrimento e perdita, di paura. Paura di perdere il contatto con l’altro, affettivamente caro, oggetto delle nostre cure o agente di cure nei nostri riguardi. Paura della solitudine e di quel che si accompagna al contatto profondo e senza distrazioni con le parti più buie di sè.

Quella pausa estiva nel sogno si caricava di tutta l’angoscia che evoca la separazione che stiamo vivendo dalle nostre abitudini, dai legami, dai luoghi di vita quotidiana.

Siamo sotto assedio. Impediti nelle più elementari libertà, privati del più umano dei bisogni. Il contatto con l’altro. Quello che si realizza attraverso il tatto, l’abbracciarsi, il toccarsi. Quello che vive di una compresenza e condivisione di spazi. Quello che si sostanzia di cura, reciproca, perché attraverso le storie, le vite, le vittorie dei pazienti anche i terapeuti guariscono, apprendendo la lezione più importante e vitale di tutte. La speranza.